Ecco qui un mio nuovo racconto. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Avevo preso, in quel periodo,l'abitudine di passeggiare nel bosco.
Abitavo in una delle ultime case ai limiti della città, mi era dunque facile, ogni qual volta lo desideravo, avviarmi su per la collina che già lambiva il mio giardino e camminare fin dove la vegetazione iniziava a farsi fitta.
Lo facevo spesso, ogni volta che lo stress cittadino, a cui ammetto sono piuttosto sensibile, si faceva troppo opprimente. Tutte le volte che la logorante routine della città, la sua aria grigia e spessa, il suo rumore onnipresente, le sue folle ingombranti, il suo caos intrinseco, si facevano per me intollerabili voltavo le spalle a tutto questo e andavo nel bosco per qualche ora.
Non c'era nulla di meglio per il mio mal di città. Ad ogni passo la mia testa si svuotava dalla confusione cittadina, sostituita da pensieri sereni, liberi di correre non più oppressi dalle mura di cemento e folle rumoreggianti.
Per me quelle passeggiate non erano delle semplici camminate o gite fini a se stesso, erano un allontanamento progressivo dalla società, dalla meschina civiltà delle città. Era come uscire gradualmente da un mondo per entrare in un altro. Era questo che percepivo, una evasione, un abbandono, seppure temporaneo, da un mondo che facevo fatica ad accettare.
Procedendo i segni di presenza umana, presente e passata, si facevano via via meno numerosi ed evidenti, fino a scomparire del tutto.
Partivo dai limiti della città, circondato da case, strade e muretti che andavano scomparendo col mio procedere. Per un certo tratto il mio cammino era affiancato da una strada asfaltata, che più avanti si trasformava in una di terra battuta, anche quella destinata a scomparire.
Le case, come qualsiasi altro segno umano, divenivano sempre più rare e discrete, fino a rimanere solo qualche raro rudere già invaso dalla vegetazione, poi più nulla.
Anche i sentieri, inizialmente numerosi e ben delineati, finivano per diventare sempre più indefiniti fino a scomparire senza lasciare traccie.
Ed ecco che mi avvicinavo al cuore del bosco: un luogo spogliato d'ogni presenza invadente. Un regno puro e primordiale, invariabile nel tempo, oggi uguale a migliaia di anni prima. Un mondo dove la vegetazione, maestosa e potente, era signora e padrona incontrastata.
Intorno a me vi erano tronchi robusti e inscalfibili, sopra fitte e verdeggianti fronde attraversate da pochi raggi di sole, sotto grosse radici spuntavano dal terreno tra foglie cadute e rami scricchiolanti.
Il mio tragitto variava di volta in volta, sicché mi imbattevo in scoperte sempre nuove: grandi radure verdi e lussureggianti, ruscelli gorgoglianti, alberi caduti che sembravano giganti sconfitti, alberi dai tronchi e le radici dalle forme più particolari, meraviglie che avrebbero accesso la fantasia di pittori e poeti.
Avanzando e col mutare del paesaggio circostante verso il cuore del bosco mi sentivo sempre più sereno, la mia mente si scrollava di dosso il torpore della quotidianità per godersi liberamente la vita e le sue piccole gioie. Non c'erano rumori molesti, brutture visive o qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto infastidirmi.
Tuttavia questa condizione serena e ideale non era destinata ad andare avanti in eterno. Continuando a camminare verso il cuore del bosco le suggestioni che l'ambiente mi suggeriva incominciavano a mutare. Ad un certo punto iniziavo ad avvertire una certa ostilità da parte dell'ambiente. Lì la natura non era solo signora incontrastata, era una padrona gelosa che non tollerava intrusi. Il bosco che fino a poco prima mi accoglieva amorevolmente ora mi guardava con disprezzo e sufficienza, come un ospite sgradito la cui presenza provoca un palese fastidio. Tutto ciò mi creava un disagio che tendeva a crescere, al punto tale che dopo poco ero costretto a girarmi e andarmene, tornando in luoghi del bosco meno profondi e ostili.
Continuò così per diverso tempo, col solito ritmo di andata e ritorno scandito da sensazioni opposte. Tuttavia ogni volta che per colpa di quel singolare disagio ero costretto a tornare sui miei passi non potevo evitare di chiedermi cosa ci fosse più avanti, cosa mi perdevo tornando indietro, che cosa il bosco nascondesse tanto gelosamente nei suo antri più profondi. Il fascino ed il mistero di quelle zone proibite (tali infatti avevo cominciato ad intenderle) esercitavano su di me una profonda attrazione, accendendo una curiosità vorace che pretendeva d'essere, prima o poi, saziata.
Spesso mi capitava di scoprirmi a fantasticare sul bosco, su che cosa nascondesse nel suo cuore più profondo. Mi ero infatti convinto che la foresta celasse un qualcosa di segreto che essa stessa difendeva.
Sapevo già dunque che prima o poi sarei partito armato di tutta la volontà di cui potevo disporre e, senza farmi più fermare da nulla, avrei raggiunto il cuore del bosco e i suoi inimmaginabili segreti.
Scelsi, infine, una bella domenica di primavera. Partii presto, equipaggiato d'una grande sicurezza, ero infatti certo della riuscita della mia impresa.
Addentrandomi nel profondo del bosco cercavo di ignorare quel disagio che ormai, mio malgrado, conoscevo ben, ma non era facile: mi pareva di sentire bisbigli minacciosi, chiaramente infastiditi dalla mia presenza, percepivo su di me sguardi ostili benché intorno, su quello ero certo, non ci fosse nessuno. Era un'ansia subdola e sottile quella che pian piano mi avvolgeva, era come una nebbia che si deposita piano piano, che si insinua in ogni interstizio, che si può tentare di tenere lontana ma non si può dissipare.
Tutto mi inviava un messaggio ben chiaro e inequivocabile: “vattene via”, e questo invito era anche un avvertimento, una minaccia seria e inappellabile.
Mi sedetti su una pietra, mi rendevo conto che dovevo riacquistare lucidità e calma prima di continuare. Mi guardai intorno in cerca di qualcosa che potesse rassicurarmi: in fondo quello era pur sempre il bosco vicino a casa. Ma mi sbagliavo, quello non era più il tranquillo bosco, il placido e sereno luogo poco fuori dalla città in cui amavo rifugiarmi. No, non lo era più, era un territorio ostile, ed io non ero altro che un piccolo e debole intruso che pieno d'arroganza lo aveva sfidato.
Mi ero fermato per tentare di ritrovare la calma, ma non potendo più concentrarmi sul camminare avevo ottenuto l'effetto opposto, ora più nulla tratteneva la nebbia.
Le fronde si erano fatte così fitte da non lasciare passare quasi più luce lasciando tutto in una uniforme oscurità.
I rami scheletrici sembravano tutti protendere verso di me per strangolarmi.
Tra le incavature nei tronchi c'erano facce e occhi che mi fissavano, ammonitori e pieni d'odio.
Ecco: la nebbia si era fatta spessa e solida e si era stretta intorno al mio cuore.
Non resistetti un secondo di più, mi alzai e mi misi a correre. Tornavo indietro, o meglio fuggivo, senza badare ai rami che mi graffiavano il volto e alle radici che mi facevano inciampare (un chiaro infierire del bosco contro il nemico messo in fuga).
Mi fermai solamente una volta giunto ai limiti della foresta. Ansimante mi appoggiai ad un tronco. Solo allora mi rivoltai verso il cuore del bosco.
Avevo perso, era chiaro, ero stato sconfitto. Gli immaginabili segreti della foresta sarebbero rimasti per me tali. Solo in quel momento mi resi conto di quanto ero stato sciocco, arrogante e presuntuoso nello sfidare il bosco con la sicurezza di vincerlo.
Tornai ancora nel bosco e ci torno tuttora, sebbene più di rado, ma da quel giorno lo guardo con occhi diversi. Non è più il “tranquillo bosco vicino a casa”, è un vero proprio mondo, un mondo i cui recessi più profondi e segreti rimarranno per sempre inaccessibili.
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